Come noto, Walter Veltroni ha fatto suo lo slogan di Barack Obama, "Yes we can" ("sì noi possiamo"). Non sorprende. Il fascino kennediano, l'America frontiera della democrazia, dei diritti e delle libertà: suggestioni che hanno sempre influenzato il pensiero politico e, quindi, anche il linguaggio di Veltroni.
Già in occasione del congresso DS del 2000, adottò il motto pacifista americano I care ("mi sta a cuore", "mi riguarda"). Scelta che allora non incontrò grandi approvazioni ma che, come scrisse allora Michele Serra su la Repubblica, "non era certo una delle soluzioni peggiori (...) Diciamo che sta a mezzo tra proletari di tutto il mondo unitevi di Marx-Engels e Yabadabadooo dei Flinstones. Leggermente consumato il primo, rischiosamente gettonabile il secondo, I care è un più che decente compromesso tra disgusto della critica e gusti del pubblico".
Otto anni dopo, il candidato premier del PD ci riprova. Sarà quel gusto di esterofilia che per molti è un po' segnale di snobismo e un po' complesso di inferiorità. Ma l'inglese abusato di Veltroni, scriveva Francesco Merlo ieri su la Repubblica, è "un'idea americana di Italia veloce contrapposta all'Italia barocca e mostruosa delle vecchie coalizioni".
Insomma niente a che vedere con l'inglese pubblicitario di don't touch my breil oppure dell'insensato Life is now. Nè l'inglese da manager bocconiano fatto di background, break even, brain storming ... tanto per restare alla lettera b.
Nè può ignorarsi che il lessico politico italiano si è via via condito di forestierismi: no-global, bipartisan, neo-con, spin doctor fino all'election-day su cui tanto si discute in queste ore.
Troppa invasione di parole straniere? Francesco Rutelli, ad inizio legislatura, aveva nominato una commissione per riscrivere il linguaggio dei beni culturali. Se nei musei italiani si dice bookshop al posto di libreria, ticket per biglietto, booking per prenotazione, card per carta...forse il problema esiste.
E allora, tanto vale buttarla a ridere. Pare che dopo l'adozione di "yes we can" da parte di Veltroni, molti nei palazzi politici capitolini abbiano ironizzato sull'affinità dello slogan con il grido di gioia di Gene Wilder in Frankenstein Junior: 'Si. Si puo' fare!" (ricorderete, Wilder/Frankestin quando legge il diario del nonno e scopre che l'esperimento è possibile). Senza sottovalutare che molti preferiscono il romanissimo "Se po' fa".
Il problema Francesco non sono tanto le parole quanto le persone. Come scrive oggi Massimo Gramellini su La Stampa, "per fare gli americani, nel bene e nel male, serve la materia prima: gli americani, appunto. Loro si rispecchiano in Obama che dice "we can". Noi - se va bene - nel Funari di Corrado Guzzanti che borbottava Gna Famo.
Già in occasione del congresso DS del 2000, adottò il motto pacifista americano I care ("mi sta a cuore", "mi riguarda"). Scelta che allora non incontrò grandi approvazioni ma che, come scrisse allora Michele Serra su la Repubblica, "non era certo una delle soluzioni peggiori (...) Diciamo che sta a mezzo tra proletari di tutto il mondo unitevi di Marx-Engels e Yabadabadooo dei Flinstones. Leggermente consumato il primo, rischiosamente gettonabile il secondo, I care è un più che decente compromesso tra disgusto della critica e gusti del pubblico".
Otto anni dopo, il candidato premier del PD ci riprova. Sarà quel gusto di esterofilia che per molti è un po' segnale di snobismo e un po' complesso di inferiorità. Ma l'inglese abusato di Veltroni, scriveva Francesco Merlo ieri su la Repubblica, è "un'idea americana di Italia veloce contrapposta all'Italia barocca e mostruosa delle vecchie coalizioni".
Insomma niente a che vedere con l'inglese pubblicitario di don't touch my breil oppure dell'insensato Life is now. Nè l'inglese da manager bocconiano fatto di background, break even, brain storming ... tanto per restare alla lettera b.
Nè può ignorarsi che il lessico politico italiano si è via via condito di forestierismi: no-global, bipartisan, neo-con, spin doctor fino all'election-day su cui tanto si discute in queste ore.
Troppa invasione di parole straniere? Francesco Rutelli, ad inizio legislatura, aveva nominato una commissione per riscrivere il linguaggio dei beni culturali. Se nei musei italiani si dice bookshop al posto di libreria, ticket per biglietto, booking per prenotazione, card per carta...forse il problema esiste.
E allora, tanto vale buttarla a ridere. Pare che dopo l'adozione di "yes we can" da parte di Veltroni, molti nei palazzi politici capitolini abbiano ironizzato sull'affinità dello slogan con il grido di gioia di Gene Wilder in Frankenstein Junior: 'Si. Si puo' fare!" (ricorderete, Wilder/Frankestin quando legge il diario del nonno e scopre che l'esperimento è possibile). Senza sottovalutare che molti preferiscono il romanissimo "Se po' fa".
Il problema Francesco non sono tanto le parole quanto le persone. Come scrive oggi Massimo Gramellini su La Stampa, "per fare gli americani, nel bene e nel male, serve la materia prima: gli americani, appunto. Loro si rispecchiano in Obama che dice "we can". Noi - se va bene - nel Funari di Corrado Guzzanti che borbottava Gna Famo.
Commenti