Fascismo e diciannovismo all'alba del Terzo Millennio

"Frasi del tipo: 'siete dei cadaveri ambulanti, vi seppelliremo vivi' e così via, sono le frasi di un linguaggio fascista, così come lo abbiamo conosciuto in Italia". Le parole del segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, rivolte a Beppe Grillo che gli ha dato del "fallito" hanno aperto una discussione tra i politologi sull'uso del termine fascista.

Una evocazione quella di Bersani che arriva a poche ore da un'altra citazione, il "diciannovismo", termine con cui - spiega il dizionario online Hoepli - si connotano gli "insieme dei fenomeni politici e sociali che caratterizzarono gli anni successivi alla prima Guerra Mondiale, specialmente in riferimento alla nascita del fascismo".

Berlinguer usò l'espressione per paragonare i ragazzi violenti del 1977 ai primi gruppi mussoliniani e, in generale, il "diciannovismo" richiama quel massimalismo di sinistra che si teme da parte della sinistra più moderata possa favorire un risorgere del fascismo.

Fascismo e diciannovismo: i due termini, usati nello spazio di un paio di giorni, non sembrano casuali. E sembrano essere indirizzati a quel fronte politico, individuato da molti notisti politici nelle figure di Grillo e Di Pietro e raccolto sulle colonne del Fatto Quotidiano, con cui paradossalmente il Pd ha fatto fronte comune fino a ieri per opporsi al berlusconismo.

C'è, però, anche chi ritiene che ormai la qualifica di fascista vada oltre il suo significato storico e, come ha spiegato sul Corriere della Sera Antonio Polito, si debba osservarla con un occhio più antropologico, "e cioè per definire qualcuno la cui arroganza, il cui stile polemico violento, il cui disprezzo irrisorio per l'avversario, il cui fastidio per il «culturame» e per i riti della democrazia, ricordi l'affermarsi dello squadrismo".

Più sferzante nei confronti del segretario Pd è Luca Ricolfi, docente di analisi dei dati all'università di Torino, che in una intervista a Italia Oggi afferma: "Il fascismo non c'è più. E l'aggettivo «fascista» è un modo per chiudere il discorso con persone con cui non ci si vuole confrontare. È una pratica, questa, che usano anche i piccoli leader locali. È un sistema con cui tappano la bocca: se dici cose che non piacciono perché sono fuori dall'ideologia di sinistra, e vogliono troncare il discorso, ti chiamano fascista".

Il passaggio da termine storicizzato a pura ingiuria è presto fatto. E c'è chi la interpreta come un diverso modo di affrontare l'agone politico, "come se dal rimboccarsi le maniche che significa «lavoriamo sodo», Bersani volesse passare al gesto che prelude al menare le mani", scrive Giovanna Cosenza sul Il Fatto Quotidiano online, mettendosi peraltro "sullo stesso piano dei modi aggressivi e dei «linguaggi fascisti» che tanto si criticano".

Se così fosse, nulla di sorprendente. Già due anni fa, Maria Teresa Meli scriveva sul Corriere della Sera come la "strategia del turpiloquio", cioè dell'uso non solo e non tanto della parolaccia ma semmai dell'invettiva, dell'attacco irriverente, dell'epiteto pesante, fosse il passaggio obbligato avvertito dalla dirigenza Pd di fronte ad una percezione dell'opinione pubblica di un partito vecchio, conservatore e lontano dalla gente.

Dal "vada a farsi fottere" di D'Alema a Ballarò nei confronti del direttore del Giornale Alessandro Sallusti all'accusa di rompere "i coglioni" lanciata da Bersani all'allora ministro dell'Istruzione Maria Stella Gelmini, sono esempi d'epoca ormai entrati negli annali del turpiloquio politico.

Sorprende, come ricorda Polito, questo "improvviso rigurgito «antifascista» se è utilizzato per nascondere o far dimenticare la forte intimità, la complicità, l'affetto addirittura con cui questi cosiddetti nuovi fascisti sono stati accolti per anni in quel «campo della sinistra» che ora li scomunica".

Vedi "Fascisti del web? Ecco le vere parole di Bersani"


Ultimo aggiornamento: 29 agosto 2012

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