Articolo di Francesco Merlo, la Repubblica
Con RoMe & You il Comune di Roma, anzi il Comune di Rome, va al di là del solito inglese sparlato e violenta la parola italiana più antica e più famosa nel mondo. Il nuovo logo ufficiale non si limita infatti ad assecondare il sempre più struggente americanismo del sindaco. Vale a dire il sordiano "uatzamerican" che è il complesso di inferiorità della provincia. Per dirla con il linguaggio dei creativi che lo hanno inventato, RoMe & You tradisce anche il brand più efficace che esista, l'unico che era rimasto ad un'amministrazione che non riesce a garantire l'ordinaria manutenzione della città, neppure quella - gratis - del nome. E meno male che non dipende da Marino, altrimenti avremmo anche la City del Vaticano.
Come si vede, quel nome in inglese è un dettaglio ridicolo e facilmente ridicolizzabile, ma che ci prende alla gola perché c'è davvero, in Rome, oltre il pacchiano e la caricatura, il diavolo d'Italia. Rome è il punto d'arrivo di un lungo oltraggio che la politica ha commesso contro la città più bella del mondo, rendendola via via corrotta, infetta, ladrona... e da ultimo anche mafiosa. Solo il nome restava da vilipendere, da tradurre per tradire. E non si tratta qui di evocare la retorica della lupa e gli avvocati della romanità di cartapesta, a partire da Giulio Cesare, anche quello di Asterix, disegnato come una statua ma con il prezzemolo in testa al posto dell'alloro, e poi Napoleone e i Papi, Dante e Goethe, Sartre e la famiglia Kennedy, Audrey Hepburn e Arturo Reghini, matematico e studioso della tradizione ermetica, al quale si deve l'anagramma triangolare: roma, orma, amor.
Il punto è che una volta che dici Roma non c'è altro da dire. E dunque era già orribile quell'aggettivo "capitale" che l'allora sindaco Alemanno aggiunse come un gagliardetto di latta alle insegne del Campidoglio, lo mise nella carta intestata, sui manifesti, sulle fiancate degli autobus, nelle locandine dei teatri. Persino la marcia su Roma, che pure gli era cara, divenne la marcia su Roma capitale. Non capiva, povero Alemanno, che Roma è già tutta nel suo nome, un luogo che «solo cambiandogli nome, possiamo smarrire» diceva Benjamin. Immaginate come sarebbe diventato il titolo più famoso della storia del cinema: "Roma capitale città aperta". Insomma qualsiasi aggiunta impoverisce il nome Roma. Ed è una superbia della storia ma anche una dannazione del presente, come ben sapevano il Pasolini di Mamma Roma, il Gadda del Pasticciaccio, il Pirandello del Fu Mattia Pascal, e ovviamente Moravia che la usò come fondale di tutte le sue opere. E infatti la lingua inglese dice Rome ma ama Roma, perché c'è Roma nella grande Hollywood e nelle fiction della tv americana (la serie viene regolarmente rimessa in onda), c'è Roma nell'architettura di tutte le città del mondo, dal Campidoglio di Washington a quello indiano di Chandigarh, c'è Roma nell'aquila bicipite di Mosca (che nasce come terza Roma; la seconda era Istanbul ); c'è Roma in ogni colonna e in ogni cupola del pianeta... E nella musica persino il perfido Wagner si dilettò a raccontare Roma.
Da un lato dunque il sindaco Marino ha fatto molto bene a cancellare la parola "capitale" dicendo lucidamente che «Roma è Roma e non ha bisogno di altri attributi o aggettivi». Ma si è poi perduto consegnandosi, con affidamento diretto e non per concorso, al blasone di Inarea di Antonio Romano, una grande agenzia di grafica, ovviamente anglofona (Identity and Design Network) la stessa che ha curato l'immagine istituzionale di Eni, Rai (la farfallina), Cgil (il quadratino rosso), Acea, Aci, Alenia, Atm, Anci, Finmeccanica, Figc, Generali e persino Equitalia. Insomma Marino ha scelto il re delle committenze pubbliche. E però, questi sapientoni della pubblicità hanno imbrattato una parola che in due sillabe racchiude l'intero mondo e ora si sentono intelligentissimi perché il logo esalta il ME&YOU contenuto in RoMe & You , che per la verità è un poverissimo gioco di parole, e in un inglese per di più sporco.
E che al Comune nessun abbia capito niente lo si evince ancora una volta dal maltrattamento della lingua, dalla oscurità maccheronica della loro prosa: «Il logo è relazionale», «l'obiettivo è la sottolineatura comunicativa», il senso è «la riscoperta della natura inclusiva e comunitaria della città», «la dimensione è dialogica». Ecco, forse questa volta era meglio imbrattarsi con l'inglese. La mia speranza è che i creativi di Inarea siano stati più realisti del re, eccessivamente zelanti con il sindaco. Sanno infatti che Marino ha una sola grande debolezza ed è il sentirsi uomo di mondo, lo stesso male di cui soffriva Totò. L'uno militare a Cuneo el'altro chirurgo a Pittsburgh.
Con RoMe & You il Comune di Roma, anzi il Comune di Rome, va al di là del solito inglese sparlato e violenta la parola italiana più antica e più famosa nel mondo. Il nuovo logo ufficiale non si limita infatti ad assecondare il sempre più struggente americanismo del sindaco. Vale a dire il sordiano "uatzamerican" che è il complesso di inferiorità della provincia. Per dirla con il linguaggio dei creativi che lo hanno inventato, RoMe & You tradisce anche il brand più efficace che esista, l'unico che era rimasto ad un'amministrazione che non riesce a garantire l'ordinaria manutenzione della città, neppure quella - gratis - del nome. E meno male che non dipende da Marino, altrimenti avremmo anche la City del Vaticano.
Come si vede, quel nome in inglese è un dettaglio ridicolo e facilmente ridicolizzabile, ma che ci prende alla gola perché c'è davvero, in Rome, oltre il pacchiano e la caricatura, il diavolo d'Italia. Rome è il punto d'arrivo di un lungo oltraggio che la politica ha commesso contro la città più bella del mondo, rendendola via via corrotta, infetta, ladrona... e da ultimo anche mafiosa. Solo il nome restava da vilipendere, da tradurre per tradire. E non si tratta qui di evocare la retorica della lupa e gli avvocati della romanità di cartapesta, a partire da Giulio Cesare, anche quello di Asterix, disegnato come una statua ma con il prezzemolo in testa al posto dell'alloro, e poi Napoleone e i Papi, Dante e Goethe, Sartre e la famiglia Kennedy, Audrey Hepburn e Arturo Reghini, matematico e studioso della tradizione ermetica, al quale si deve l'anagramma triangolare: roma, orma, amor.
Il punto è che una volta che dici Roma non c'è altro da dire. E dunque era già orribile quell'aggettivo "capitale" che l'allora sindaco Alemanno aggiunse come un gagliardetto di latta alle insegne del Campidoglio, lo mise nella carta intestata, sui manifesti, sulle fiancate degli autobus, nelle locandine dei teatri. Persino la marcia su Roma, che pure gli era cara, divenne la marcia su Roma capitale. Non capiva, povero Alemanno, che Roma è già tutta nel suo nome, un luogo che «solo cambiandogli nome, possiamo smarrire» diceva Benjamin. Immaginate come sarebbe diventato il titolo più famoso della storia del cinema: "Roma capitale città aperta". Insomma qualsiasi aggiunta impoverisce il nome Roma. Ed è una superbia della storia ma anche una dannazione del presente, come ben sapevano il Pasolini di Mamma Roma, il Gadda del Pasticciaccio, il Pirandello del Fu Mattia Pascal, e ovviamente Moravia che la usò come fondale di tutte le sue opere. E infatti la lingua inglese dice Rome ma ama Roma, perché c'è Roma nella grande Hollywood e nelle fiction della tv americana (la serie viene regolarmente rimessa in onda), c'è Roma nell'architettura di tutte le città del mondo, dal Campidoglio di Washington a quello indiano di Chandigarh, c'è Roma nell'aquila bicipite di Mosca (che nasce come terza Roma; la seconda era Istanbul ); c'è Roma in ogni colonna e in ogni cupola del pianeta... E nella musica persino il perfido Wagner si dilettò a raccontare Roma.
Da un lato dunque il sindaco Marino ha fatto molto bene a cancellare la parola "capitale" dicendo lucidamente che «Roma è Roma e non ha bisogno di altri attributi o aggettivi». Ma si è poi perduto consegnandosi, con affidamento diretto e non per concorso, al blasone di Inarea di Antonio Romano, una grande agenzia di grafica, ovviamente anglofona (Identity and Design Network) la stessa che ha curato l'immagine istituzionale di Eni, Rai (la farfallina), Cgil (il quadratino rosso), Acea, Aci, Alenia, Atm, Anci, Finmeccanica, Figc, Generali e persino Equitalia. Insomma Marino ha scelto il re delle committenze pubbliche. E però, questi sapientoni della pubblicità hanno imbrattato una parola che in due sillabe racchiude l'intero mondo e ora si sentono intelligentissimi perché il logo esalta il ME&YOU contenuto in RoMe & You , che per la verità è un poverissimo gioco di parole, e in un inglese per di più sporco.
E che al Comune nessun abbia capito niente lo si evince ancora una volta dal maltrattamento della lingua, dalla oscurità maccheronica della loro prosa: «Il logo è relazionale», «l'obiettivo è la sottolineatura comunicativa», il senso è «la riscoperta della natura inclusiva e comunitaria della città», «la dimensione è dialogica». Ecco, forse questa volta era meglio imbrattarsi con l'inglese. La mia speranza è che i creativi di Inarea siano stati più realisti del re, eccessivamente zelanti con il sindaco. Sanno infatti che Marino ha una sola grande debolezza ed è il sentirsi uomo di mondo, lo stesso male di cui soffriva Totò. L'uno militare a Cuneo el'altro chirurgo a Pittsburgh.
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