Andreas Lubitz, 28 anni, il copilota responsabile di aver deliberatamente distrutto l'aereo Germanwings portandosi via altre 149 persone in volo, in Germania è ormai un Amok-pilot, neologismo forgiato sul solco di quei matti che impugnano le armi nelle scuole e fanno stragi.
Lubitz, a detta di una sua amica, sarebbe vittima di un Amoklauf, termine che in Germania ha cominciato a diffondersi dopo una sparatoria in una scuola di Erfurt, nel 2002: da allora, le autorità scolastiche usano il termine per lanciare l'allarme e avvertire del pericolo di un’aggressione omicida.
Nel 2009, ha raccontato l'amica, Lubitz aveva sofferto di un esaurimento nervoso, era caduto in depressione e aveva dovuto interrompere per un po' l'addestramento da pilota. Ma aveva superato il momento. Unica spiegazione, un Amoklauf, un attacco improvviso di pazzia.
Amoklauf, Amok-pilot. Le due parole hanno una radice comune, Amok, termine di origine malese che indica un'esplosione improvvisa di violenza, una follia irrefrenabile che sfocia in un crimine. Una sindrome del tutto eccezionale che parrebbe proprio tipica delle regioni del Sud-est asiatico.
L'Amok sorgerebbe dopo un'offesa ricevuta e vissuta come intollerabile o, anche, per via dell'accumulo di tensioni che rende impossibile sopportarne altre. L'Amuk ha dei sintomi ben definiti: il soggetto colpito prima si chiude in sè stesso ed evita ogni tipo di relazioni, poi comincia ad aggredire i familiari e successivamente gli estrenei in un crescendo incontrollabile di furia omicida. Una violenza a cui seguirebbero poi fenomeni di amnesia e malinconico esaurimento. Il nome deriva dal grido del feroce cavaliere medioevale malese.
L'etnopsicoanalista George Devereux ha studiato questa sindrome mostrando come essa appartenga ad una serie di comportamenti culturali, cioè riconosciuti dalla cultura dei soggetti che li manifestano.
Nel racconto omonimo del 1922, lo scrittore austriaco Stefan Zweig definisce l'Amok come un «accesso di monomania omicida» che si impadronisce all'improvviso di un uomo qualunque, spingendolo a colpire chiunque gli si pari dinanzi, ciecamente, in una «folle perseveranza rettilinea» cui soltanto l'estenuazione o la morte potranno infine porre termine.
Lubitz, a detta di una sua amica, sarebbe vittima di un Amoklauf, termine che in Germania ha cominciato a diffondersi dopo una sparatoria in una scuola di Erfurt, nel 2002: da allora, le autorità scolastiche usano il termine per lanciare l'allarme e avvertire del pericolo di un’aggressione omicida.
Nel 2009, ha raccontato l'amica, Lubitz aveva sofferto di un esaurimento nervoso, era caduto in depressione e aveva dovuto interrompere per un po' l'addestramento da pilota. Ma aveva superato il momento. Unica spiegazione, un Amoklauf, un attacco improvviso di pazzia.
Amoklauf, Amok-pilot. Le due parole hanno una radice comune, Amok, termine di origine malese che indica un'esplosione improvvisa di violenza, una follia irrefrenabile che sfocia in un crimine. Una sindrome del tutto eccezionale che parrebbe proprio tipica delle regioni del Sud-est asiatico.
L'Amok sorgerebbe dopo un'offesa ricevuta e vissuta come intollerabile o, anche, per via dell'accumulo di tensioni che rende impossibile sopportarne altre. L'Amuk ha dei sintomi ben definiti: il soggetto colpito prima si chiude in sè stesso ed evita ogni tipo di relazioni, poi comincia ad aggredire i familiari e successivamente gli estrenei in un crescendo incontrollabile di furia omicida. Una violenza a cui seguirebbero poi fenomeni di amnesia e malinconico esaurimento. Il nome deriva dal grido del feroce cavaliere medioevale malese.
L'etnopsicoanalista George Devereux ha studiato questa sindrome mostrando come essa appartenga ad una serie di comportamenti culturali, cioè riconosciuti dalla cultura dei soggetti che li manifestano.
Nel racconto omonimo del 1922, lo scrittore austriaco Stefan Zweig definisce l'Amok come un «accesso di monomania omicida» che si impadronisce all'improvviso di un uomo qualunque, spingendolo a colpire chiunque gli si pari dinanzi, ciecamente, in una «folle perseveranza rettilinea» cui soltanto l'estenuazione o la morte potranno infine porre termine.
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