Articolo di Caterina Soffici, Il Fatto Quotidiano
In una classifica stilata dagli esperti di Data Journalism del Guardian, Alberto Nardelli e Ami Sedghi, l'inno nazionale italiano è risultato il più sessista di tutti, assieme a quello turco e canadese. Niente di nuovo, quando si parla di sessismo e di Italia. Ma questa volta siamo fuori dallo stereotipo e della chiacchiera, perché il Data Journalism è quel filone del giornalismo, in voga soprattutto nei paesi anglosassoni, che grazie a particolari software permette di analizzare una enorme massa di dati, per compararli e creare delle fonti non ottenibili in altri modi. Ecco quindi che, prese le parole di tutti gli inni nazionali e messe nel cervellone, il responso è stato questo.
La ricerca è partita dopo che in Canada, un gruppo di parlamentari progressisti ha chiesto formalmente la modifica in senso più neutrale dell'inno nazionale 'O Canada', perché ritenuto troppo maschilista. La proposta si è per ora arenata per l'opposizione dei conservatori. E non è comunque il primo tentativo di cambiare gli inni nazionali, vecchi spesso più di un secolo. Tentativi talvolta sono andati a buon fine, come nel caso dell'inno austriaco che è stato modificato nel 2012 dopo proteste analoghe legate ai richiami sessisti. Così i "figli" della prima strofa sono diventati "figli e figlie" e i "cori fraterni" sono ora "cori di giubilo". Altre volte invece le richieste di maggiore neutralità non hanno avuto successo. Come quella promossa nel 2010 da una donna del Costa Rica, che ha provato inutilmente a convincere la Corte Suprema a cambiare l'inno nazionale, ma la sua accusa di sessismo è stata respinta.
Il criterio della "neutralità" delle parole è quello usato dai due giornalisti del Guardian. Quando un inno usa solo "uomo" quando sarebbe possibile usare anche "donna", viene etichettato come "fortemente sessista". I "fratelli d'Italia" sono finiti nel mirino, perché sarebbe possibile sostituirli o aggiungerci le "sorelle". Lo stesso vale per gli inni di Canada e Turchia, anch'essi catalogati come "sessisti", perché si parla di "uomini" e di "figli", omettendo le "donne" e le "figlie". Nella griglia che risulta dalla ricerca del Guardian, l'Italia guida quindi la classifica. Seguono Germania e Russia, che si riferiscono alla patria come vaterland, terra dei padri (quindi maschile). Poi Brasile e Portogallo, Stati Uniti e la Turchia.
La Gran Bretagna è considerata un paese neutro, perché l'inno cambia a seconda del genere del sovrano. 'God save the Queen' o 'the King', a seconda di chi è sul trono. Neutri sono anche Francia, Australia, Serbia, Cina, Polonia e la versione Maori dell'inno neozelandese (perché i pronomi nella lingua maori sono neutri, mentre la stessa versione inglese è considerata maschilista).
Possono sembrare questioni di lana caprina, ma le parole hanno un peso e l'uso che se ne fa anche. Modificare il modo in cui si usano le parole significa anche modificare l'approccio a certi temi e alla fine anche la mentalità comune. Un esempio per tutti: da quando il politicamente corretto ha vietato l'uso di "negro", la parola stessa ha assunto un connotato razzista. Chi la usa lo fa con l'intento di offendere, mentre prima che entrassero in vigore le espressioni "nero", "di colore", "afroamericano" etc. (considerate parole neutre) era un parola che si usava per definire una persona nera di pelle. Il discorso sugli inni è simile.
Se il nostro inno diventasse "Fratelli e sorelle d'Italia", saremmo un paese più civile e meno sessista? Difficile dirlo. "Il linguaggio in sé è sempre parziale e discriminatorio", scrivono al Guardian, "non solo in termini di sessismo". E se in Svezia i puristi hanno vinto una battaglia per l'introduzione del pronome neutro "hen", al posto di "hon" (lei) e "han" (lui), rimane aperta la questione se il politicamente corretto abbia veramente una funzione sociale.
In una classifica stilata dagli esperti di Data Journalism del Guardian, Alberto Nardelli e Ami Sedghi, l'inno nazionale italiano è risultato il più sessista di tutti, assieme a quello turco e canadese. Niente di nuovo, quando si parla di sessismo e di Italia. Ma questa volta siamo fuori dallo stereotipo e della chiacchiera, perché il Data Journalism è quel filone del giornalismo, in voga soprattutto nei paesi anglosassoni, che grazie a particolari software permette di analizzare una enorme massa di dati, per compararli e creare delle fonti non ottenibili in altri modi. Ecco quindi che, prese le parole di tutti gli inni nazionali e messe nel cervellone, il responso è stato questo.
La ricerca è partita dopo che in Canada, un gruppo di parlamentari progressisti ha chiesto formalmente la modifica in senso più neutrale dell'inno nazionale 'O Canada', perché ritenuto troppo maschilista. La proposta si è per ora arenata per l'opposizione dei conservatori. E non è comunque il primo tentativo di cambiare gli inni nazionali, vecchi spesso più di un secolo. Tentativi talvolta sono andati a buon fine, come nel caso dell'inno austriaco che è stato modificato nel 2012 dopo proteste analoghe legate ai richiami sessisti. Così i "figli" della prima strofa sono diventati "figli e figlie" e i "cori fraterni" sono ora "cori di giubilo". Altre volte invece le richieste di maggiore neutralità non hanno avuto successo. Come quella promossa nel 2010 da una donna del Costa Rica, che ha provato inutilmente a convincere la Corte Suprema a cambiare l'inno nazionale, ma la sua accusa di sessismo è stata respinta.
Il criterio della "neutralità" delle parole è quello usato dai due giornalisti del Guardian. Quando un inno usa solo "uomo" quando sarebbe possibile usare anche "donna", viene etichettato come "fortemente sessista". I "fratelli d'Italia" sono finiti nel mirino, perché sarebbe possibile sostituirli o aggiungerci le "sorelle". Lo stesso vale per gli inni di Canada e Turchia, anch'essi catalogati come "sessisti", perché si parla di "uomini" e di "figli", omettendo le "donne" e le "figlie". Nella griglia che risulta dalla ricerca del Guardian, l'Italia guida quindi la classifica. Seguono Germania e Russia, che si riferiscono alla patria come vaterland, terra dei padri (quindi maschile). Poi Brasile e Portogallo, Stati Uniti e la Turchia.
La Gran Bretagna è considerata un paese neutro, perché l'inno cambia a seconda del genere del sovrano. 'God save the Queen' o 'the King', a seconda di chi è sul trono. Neutri sono anche Francia, Australia, Serbia, Cina, Polonia e la versione Maori dell'inno neozelandese (perché i pronomi nella lingua maori sono neutri, mentre la stessa versione inglese è considerata maschilista).
Possono sembrare questioni di lana caprina, ma le parole hanno un peso e l'uso che se ne fa anche. Modificare il modo in cui si usano le parole significa anche modificare l'approccio a certi temi e alla fine anche la mentalità comune. Un esempio per tutti: da quando il politicamente corretto ha vietato l'uso di "negro", la parola stessa ha assunto un connotato razzista. Chi la usa lo fa con l'intento di offendere, mentre prima che entrassero in vigore le espressioni "nero", "di colore", "afroamericano" etc. (considerate parole neutre) era un parola che si usava per definire una persona nera di pelle. Il discorso sugli inni è simile.
Se il nostro inno diventasse "Fratelli e sorelle d'Italia", saremmo un paese più civile e meno sessista? Difficile dirlo. "Il linguaggio in sé è sempre parziale e discriminatorio", scrivono al Guardian, "non solo in termini di sessismo". E se in Svezia i puristi hanno vinto una battaglia per l'introduzione del pronome neutro "hen", al posto di "hon" (lei) e "han" (lui), rimane aperta la questione se il politicamente corretto abbia veramente una funzione sociale.
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