Milleproroghe, un sopravvissuto del politichese

La storia ultraventennale di una parola ricostruita da Sergio Rizzo sul Corriere della Sera. Un geniale neologismo che per il vocabolario della lingua Treccani trova "radice in un articolo di Pierluigi Franz pubblicato dal quotidiano torinese La Stampa il 7 settembre 1993. Titolo: «Nel governo è entrato il ministro della proroga». Entrato, e mai più uscito. Da sedici governi a questa parte". Entrato per la prima volta con il governo di Giuliano Amato e sopravvissuto a esecutivi di ogni colore e forma, capace di resistere persino alla rottamazione renziana.

Il significato? Lo dice la parola stessa. Milleproroghe, "un provvedimento che rinvia, solitamente di anno in anno, scadenze che lo Stato ha fissato con legge ma che non riesce o non può rispettare".

Nella sostanza, è il decreto legge di fine anno che contiene disposizioni urgenti e proroghe di precedenti decreti su svariate materie. Un retaggio del politichese della Prima Repubblica, "in molti casi una clamorosa certificazione di inefficienza amministrativa, diventato però negli anni un comodo vagone sul quale caricare anche le marchette (e certe carinerie ad personam) per cui non si è trovato posto nella finanziaria o un ottimo strumento per piazzare qualche toppa qui e là". Spesso e volentieri, anche l'incredibile esercizio di burocratese intenzionale: "«Il termine di cui all'articolo 23, comma 5, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, già prorogato ai sensi dell'articolo 29, comma 11-ter, del decreto-legge 29 dicembre 2011, n. 216, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 febbraio 2012, IL 14, e dell'articolo 5-ter del decreto-legge 26 aprile 2013, n. 43, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 giugno 2o13, n. 71, è ulteriormente differito al 30 giugno 2014». Chi ci capisce qualcosa è bravo... Ma non sono i normali cittadini che devono capire: capisca solo chi deve".

Prima di questo, "l'unico altro «milleproroghe» del governo Renzi - conclude Rizzo - è entrato alle Camere con un testo di 27.995 caratteri. Quando ne è uscito erano diventati 72.318".

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