Pena di morte per fermare la droga. Gli Usa come Singapore

“Se non usiamo le maniere forti contro i trafficanti, non otterremo niente. E le maniere forti comprendono la pena di morte”. Trump lancia la crociata contro quella che definisce “l’epidemia di oppiacei” proponendo ufficialmente nel suo piano di lotta contro questa emergenza, Stop Opiud Abuse, anche la condanna più dura. “Dobbiamo cambiare le leggi, e stiamo lavorandoci ora”, ha spiegato, smentendo Andrew Bremberg, direttore della politica interna della Casa Bianca, il quale aveva anticipato che non si sarebbe fatto ricorso a nuove leggi ma a quelle già esistenti, che consentono la pena di morte a livello federale per le morti causate da overdose, anche se alcuni esperti la considerano incostituzionale. “Gli Usa devono essere duri contro la droga e la durezza include la pena di morte”, ha ammonito il tycoon, lasciando al dipartimento di Giustizia il compito di indicare i casi per i quali applicare le nuove misure.
 
L’annuncio fatto lunedì scorso a Manchester, New Hampshire, in uno degli Stati americani più colpiti da questa piaga, in realtà non è una novità assoluta. Già il 26 febbraio, Trump avrebbe espresso la volontà di estendere la pena capitale per i spacciatori di droga, come rivelato da Axios. Volontà poi resa pubblica l’11 marzo quando ha scaldato per la prima volta con questa proposta la folla di un comizio elettorale evocando modelli come Cina e Singapore che, sostiene il presidente americano, hanno meno problemi con la tossicodipendenza per la durezza con cui puniscono gli spacciatori.

Durante e dopo la campagna presidenziale del 2016, del resto, Trump aveva elogiato pubblicamente il presidente filippino Rodrigo Duterte per la sua sanguinosa guerra al narcotraffico, che nel corso degli ultimi anni ha causato migliaia di vittime, pur godendo di un forte sostegno da parte dell’opinione pubblica di quel paese. Anche le drastiche misure in vigore a Singapore contro il traffico di droga sono oggetto di periodiche denunce da parte delle organizzazioni per i diritti umani, secondo cui alle persone accusate di essere trafficanti è negato un processo equo e trasparente. Ed Amnesty International sostiene che gran parte dei condannati a morte per reati di droga sono in realtà piccoli spacciatori costretti a mettersi al servizio dei narcotrafficanti. 

Secondo un rapporto dell’organizzazione con sede a Londra, nonostante la riforma introdotte nel 2013, la pena di morte per reati di droga resta una sanzione obbligatoria e il potere di stabilire la vita o la morte di un condannato è lasciato nelle mani del pubblico ministero: se l’imputato fornisce collaborazione alle indagini, ottiene un ‘certificato’ che può evitargli l’impiccagione, altrimenti il giudice sarà tenuto a comminare la pena capitale. Su 51 casi esaminati da Amnesty, in 34 l’imputato è stato condannato a morte perché non aveva ottenuto lo speciale ‘certificato’.

Ma a Trump queste cifre e le preoccupazioni delle organizzazioni interessano poco ed è più incline alle rassicurazioni che gli arrivano dalle autorità della città-Stato. “Quando ho chiesto al primo ministro se avessero un problema con la droga, lui ha risposto: ‘No. Pena di morte'”, ha dichiarato. 

Arabia Saudita, Cina, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Iran, Kuwait, Laos, Malesia, Singapore, Sri Lanka, Thailandia e Vietnam: sono alcuni dei paesi che infliggono la pena di morte per reati connessi alla droga. Una ‘non rispettabile’ compagnia, in tema di diritti umani, a cui gli Usa si ritroverebbero accostati. “Non dobbiamo seguire l’esempio di altri paesi, come Singapore, in cui le durissime norme anti-droga non solo non incidono sui danni provocati dalla droga ma violano anche norme e standard del diritto internazionale”, ammonisce Kristina Roth, direttrice del Programma Giustizia penale di Amnesty International Usa.

E proprio da Singapore, qualche giorno fa, è arrivata la notizia della seconda esecuzione del 2018. Hishamrudin Mohd, 56 anni, condannato a morte dall’Alta Corte il 2 febbraio 2016 per traffico di diamorfina, è stato impiccato nel Complesso della Prigione di Changi. Nemmeno una settimana prima, il 9 marzo, era stato messo a morte un cittadino del Ghana, sempre per reati connessi al traffico di droga.

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