Neppure un mese fa a Singapore sono state messe a morte due persone nel giro di appena una settimana, entrambe per reati legati alla droga. Lo scorso anno la città-Stato ha registrato otto esecuzioni. Le autorità rivendicano la necessità di combattere severamente traffico e uso di droghe, ma la maggior parte dei condannati a morte sono piccoli spacciatori costretti a mettersi al servizio dei narcotrafficanti per pagare debiti o perché non trovano lavoro. Eppure, la ‘linea dura’ di Singapore viene presa ad esempio da altri paesi, persino dagli Usa dove il presidente Trump vorrebbe la pena capitale anche per i reati di droga.
In realtà, Singapore è in buona compagnia. Come emerge dal Rapporto sulla pena di morte pubblicato da Amnesty International, lo scorso anno sono state emesse sentenze capitali ed eseguite condanne a morte per reati legati alla droga in 15 paesi, anche se esecuzioni si sono compiute in soli 4 paesi: oltre a Singapore, Cina, Iran e Arabia Saudita. Ma è probabile che sentenze capitali per questo tipo di reati siano state eseguite anche in Malesia e Vietnam. Il dato preoccupa gli attivisti per i diritti umani che denunciano come la pena capitale non scoraggia il narcotraffico, ma semmai colpisce consumatori e piccoli spacciatori. Per questo, sostengono, sarebbero necessarie strategie diverse per combattere i reati di droga che molto spesso, e soprattutto in alcune aree geografiche, sono fortemente collegati a problemi quali disoccupazione e povertà.
Qualche piccolo miglioramento in realtà si registra. L’Iran che, secondo fonti giudiziarie iraniane, ha messo a morte in 30 anni almeno 10mila persone per reati di droga, ha riformato lo scorso anno la legislazione in materia innalzando il quantitativo minimo di droga da possedere per poter essere condannati a morte. Conseguenza, il numero di esecuzioni è notevolmente diminuito e oltre l’80% dei circa 4000 prigionieri condannati alla pena capitale con l’accusa di crimini legati alla droga dovrebbe essere salvato dalla esecuzione.
“Nonostante i passi avanti verso l’abolizione di questa abominevole punizione, alcuni leader continuano a usare la pena di morte come un metodo spiccio invece di affrontare le cause di fondo legate alla droga con politiche umane, efficaci e basate sull’esperienza. Leader forti portano avanti la giustizia, non le esecuzioni”, ha dichiarato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International.
Ma intanto le esecuzioni continuano seppur con numeri sempre in calo. Lo scorso anno, si legge nel Rapporto di Amnesty, si sono registrate almeno 993 esecuzioni in 23 paesi (resta fuori la Cina i cui dati restano un segreto di stato), il 4 per cento in meno rispetto alle 1032 esecuzioni del 2016 e il 39 per cento in meno rispetto alle 1634 del 2015. Mentre sarebbero state almeno 2591 le condanne a morte emesse in 53 paesi.
“La pena di morte è il sintomo di una cultura di violenza”, spiega Shetty, e appare – se possibile – ancor più dura, crudele e grave quando colpisce le persone che al momento del reato avevano meno di 18 anni (in Iran cinque esecuzioni e almeno 80 prigionieri nei bracci della morte), oppure chi soffre di disabilità mentale o intellettuale (persone messe a morte o in attesa di esecuzione in Giappone, Maldive, Pakistan, Singapore e Usa) o chi è stato condannato dopo confessioni estorte con maltrattamenti e torture (in Arabia Saudita, Bahrein, Cina, Iran e Iraq).
Eppure segnali positivi arrivano, ad esempio dall’Africa subsahariana dove la Guinea è diventato il ventesimo paese abolizionista di quest’area geografica che fino a 30 anni fa poteva contare solo su Capo Verde fuori dalla pena di morte. Anche la Mongolia ha messo la parola fine alla pena capitale, facendo salire così a 106 il numero dei paesi abolizionisti.
Ma c’è ancora molto da fare e gli attivisti di Amnesty e delle organizzazioni per i diritti umani non possono abbassare la guardia. Non è solo una battaglia di diritto e di principio, è anche e soprattutto una lotta per la sopravvivenza: sono 22mila i prigionieri in attesa di esecuzione nel mondo.
In realtà, Singapore è in buona compagnia. Come emerge dal Rapporto sulla pena di morte pubblicato da Amnesty International, lo scorso anno sono state emesse sentenze capitali ed eseguite condanne a morte per reati legati alla droga in 15 paesi, anche se esecuzioni si sono compiute in soli 4 paesi: oltre a Singapore, Cina, Iran e Arabia Saudita. Ma è probabile che sentenze capitali per questo tipo di reati siano state eseguite anche in Malesia e Vietnam. Il dato preoccupa gli attivisti per i diritti umani che denunciano come la pena capitale non scoraggia il narcotraffico, ma semmai colpisce consumatori e piccoli spacciatori. Per questo, sostengono, sarebbero necessarie strategie diverse per combattere i reati di droga che molto spesso, e soprattutto in alcune aree geografiche, sono fortemente collegati a problemi quali disoccupazione e povertà.
Qualche piccolo miglioramento in realtà si registra. L’Iran che, secondo fonti giudiziarie iraniane, ha messo a morte in 30 anni almeno 10mila persone per reati di droga, ha riformato lo scorso anno la legislazione in materia innalzando il quantitativo minimo di droga da possedere per poter essere condannati a morte. Conseguenza, il numero di esecuzioni è notevolmente diminuito e oltre l’80% dei circa 4000 prigionieri condannati alla pena capitale con l’accusa di crimini legati alla droga dovrebbe essere salvato dalla esecuzione.
“Nonostante i passi avanti verso l’abolizione di questa abominevole punizione, alcuni leader continuano a usare la pena di morte come un metodo spiccio invece di affrontare le cause di fondo legate alla droga con politiche umane, efficaci e basate sull’esperienza. Leader forti portano avanti la giustizia, non le esecuzioni”, ha dichiarato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International.
Ma intanto le esecuzioni continuano seppur con numeri sempre in calo. Lo scorso anno, si legge nel Rapporto di Amnesty, si sono registrate almeno 993 esecuzioni in 23 paesi (resta fuori la Cina i cui dati restano un segreto di stato), il 4 per cento in meno rispetto alle 1032 esecuzioni del 2016 e il 39 per cento in meno rispetto alle 1634 del 2015. Mentre sarebbero state almeno 2591 le condanne a morte emesse in 53 paesi.
“La pena di morte è il sintomo di una cultura di violenza”, spiega Shetty, e appare – se possibile – ancor più dura, crudele e grave quando colpisce le persone che al momento del reato avevano meno di 18 anni (in Iran cinque esecuzioni e almeno 80 prigionieri nei bracci della morte), oppure chi soffre di disabilità mentale o intellettuale (persone messe a morte o in attesa di esecuzione in Giappone, Maldive, Pakistan, Singapore e Usa) o chi è stato condannato dopo confessioni estorte con maltrattamenti e torture (in Arabia Saudita, Bahrein, Cina, Iran e Iraq).
Eppure segnali positivi arrivano, ad esempio dall’Africa subsahariana dove la Guinea è diventato il ventesimo paese abolizionista di quest’area geografica che fino a 30 anni fa poteva contare solo su Capo Verde fuori dalla pena di morte. Anche la Mongolia ha messo la parola fine alla pena capitale, facendo salire così a 106 il numero dei paesi abolizionisti.
Ma c’è ancora molto da fare e gli attivisti di Amnesty e delle organizzazioni per i diritti umani non possono abbassare la guardia. Non è solo una battaglia di diritto e di principio, è anche e soprattutto una lotta per la sopravvivenza: sono 22mila i prigionieri in attesa di esecuzione nel mondo.
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