(Corriere della Sera, Paolo Di Stefano)
Se non ci fosse da piangere, ci sarebbe da ridere di fronte a certe parole a vanvera. Il parlare a vanvera è un filone comico della letteratura italiana, dalla poesia bernesca del '500 alla prosa del '900. Il vocabolo, «vanvera», è di origine incerta: aicuni pensano a un'etimologia onomatopeica infantile (da «fan-fan», stessa radice di fanfarone), altri la accostano a uno strumento veneziano e napoletano secentesco, la «vanvera» (o «piritera») da passeggio o da alcova, un contenitore di pelle che raccoglieva i gas intestinaili di re, principi e signori affetti da meteorismo. Questa seconda ipotesi avrebbe il pregio di rendere plasticamente il significato metaforico del «parlare a vanvera» come una sorta di esecuzione intestinale spontanea: con la fanfara si dà fiato alle trombe, con la «vanvera» si dava fiato al culo.
Da qualche tempo il «parlare a vanvera» è diventato un sottogenere del linguaggio politico e nelle ultime settimane l'espressione avverbiale è tornata d'attualità. Non richiesto, Salvini ha assicurato in un comizio: «non mi piace parlare a vanvera», mentre dal Pd si è alzato forte un avvertimento: «parlare a vanvera e governare sono due cose ben diverse». Si tratta, forse non a caso, di un'espressione esclusivamente italiana, ricca di molteplici varietà regionali. E c'è anche l'espressione «alla carlona», che non deriva certo dal prenome di Cottarelli ma dalla rappresentazione medievale di Carlo Magno come sovrano goffo e sempliciotto. Fatto sta che gii equivaienti in francese, tedesco, inglese e spagnolo non sono altrettanto efficaci («non-sense» et similia).
Ebbene, che il «parlare a vanvera» potesse diffondersi anche nelle alte sfere di Bruxelles, attraverso il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, è una sorpresa poco consolante: forse contagiati dalla vanvera italiana, quando parlano dell'Italia anche gli stranieri si concedono di emettere fiato alla carlona. Salvo smentire: «Dobbiamo trattare l'Italia con rispetto».
Se non ci fosse da piangere, ci sarebbe da ridere di fronte a certe parole a vanvera. Il parlare a vanvera è un filone comico della letteratura italiana, dalla poesia bernesca del '500 alla prosa del '900. Il vocabolo, «vanvera», è di origine incerta: aicuni pensano a un'etimologia onomatopeica infantile (da «fan-fan», stessa radice di fanfarone), altri la accostano a uno strumento veneziano e napoletano secentesco, la «vanvera» (o «piritera») da passeggio o da alcova, un contenitore di pelle che raccoglieva i gas intestinaili di re, principi e signori affetti da meteorismo. Questa seconda ipotesi avrebbe il pregio di rendere plasticamente il significato metaforico del «parlare a vanvera» come una sorta di esecuzione intestinale spontanea: con la fanfara si dà fiato alle trombe, con la «vanvera» si dava fiato al culo.
Da qualche tempo il «parlare a vanvera» è diventato un sottogenere del linguaggio politico e nelle ultime settimane l'espressione avverbiale è tornata d'attualità. Non richiesto, Salvini ha assicurato in un comizio: «non mi piace parlare a vanvera», mentre dal Pd si è alzato forte un avvertimento: «parlare a vanvera e governare sono due cose ben diverse». Si tratta, forse non a caso, di un'espressione esclusivamente italiana, ricca di molteplici varietà regionali. E c'è anche l'espressione «alla carlona», che non deriva certo dal prenome di Cottarelli ma dalla rappresentazione medievale di Carlo Magno come sovrano goffo e sempliciotto. Fatto sta che gii equivaienti in francese, tedesco, inglese e spagnolo non sono altrettanto efficaci («non-sense» et similia).
Ebbene, che il «parlare a vanvera» potesse diffondersi anche nelle alte sfere di Bruxelles, attraverso il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, è una sorpresa poco consolante: forse contagiati dalla vanvera italiana, quando parlano dell'Italia anche gli stranieri si concedono di emettere fiato alla carlona. Salvo smentire: «Dobbiamo trattare l'Italia con rispetto».
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