Rapporto Amnesty. Scende del 30% il numero delle esecuzioni

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Aveva 15 anni quando è stato condannato a morte, nel novembre 2017. Lui, studente della scuola secondaria in Sud Sudan, sostiene che si è trattato di un incidente, per la corte che lo ha condannato è un omicida. “Non sono affatto tranquillo, a nessuno piace morire. So che potrei essere ucciso da un momento all’altro e non ne sono felice”, ha confessato. Sa bene che il suo Paese, il Sud Sudan, nel 2018 ha fatto registrare un record per numero di esecuzioni, sette tra cui anche un minore, da quando nel 2011 ha ottenuto l’indipendenza.

Per lui e gli altri 2,500 condannati a morte nel 2018, la pena di morte continua ad essere un problema reale. Eppure i dati resi noti oggi dal Rapporto annuale di Amnesty International ci dicono che la tendenza globale all’abolizione è sempre più marcata. Scende del 30% il numero delle esecuzioni, scende anche il numero dei Paesi che hanno eseguito sentenze capitali. Il Burkina Faso ha abolito la pena di morte, il Gambia ha proclamato una moratoria ufficiale e ha fatto passi concreti verso l’abolizione, la Malesia ha annunciato una riforma delle leggi in materia di pena capitale dopo aver stabilito una moratoria e nello stato di Washington la pena di morte è stata dichiarata incostituzionale.

Ma non sono solo buone notizie. La Thailandia ha eseguito la sua prima condanna a morte dal 2009 e altri paesi hanno presentato degli aumenti nel loro totale annuale, tra cui Bielorussia, Giappone, Singapore, Stati Uniti d’America e Sudan del Sud.

“Lavoriamo da oltre 40 anni per fermare le esecuzioni – dice Amnesty International – e con più di 19mila pesone che ancora languiscono nei bracci della morte non ci fermeremo”.
 

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