Più delle accuse di razzismo poterono gli sponsor: i «Redskins» cambiano nome

"Cambiare nome ai Redskins? Non accadrà mai. È molto semplice: MAI. Potete scriverlo a lettere maiuscole: quel nome non è un'etichetta qualunque, è un distintivo d'onore». Nell'infuocata polemica sul cambio del nome, in odore di razzismo, della squadra di football di Washington, queste sembrano le parole di un perentorio tweet di Donald Trump: un presidente che non perde occasione per mostrare la sua ostilità nei confronti della protesta degli afroamericani e di altre minoranze etniche. Invece sono parole di Daniel Snyder, il padrone della squadra. Pronunciate nel 2014, quando già infuriavano le proteste e le pressioni per cambiale un nome, pellerossa, e un logo, un nativo indiano ritratto di profilo, bollati come razzisti dal Congresso, da 70 giornali e molte reti televisive che avevano bandito la parola redskin da articoli e trasmissioni, e anche dalla Casa Bianca: «Se fossi proprietario del team cambierei il nome» disse il presidente Barack Obama.

Il padrone che nel 2014 rispose con un «no» perentorio a tutte le pressioni politiche e dell'opinione pubblica, è lo stesso Dan Snyder che ieri ha annunciato in un comunicato che nome e logo dei Redskins vengono cancellati con effetto immediato. Come verranno sostituiti? Non c'è ancora una soluzione alternativa pronta, anche se la società ha avuto più di dieci anni di tempo per pensarci, visto che le prime contestazioni risalgono al 2008 quando lo US Trade mark, l'ufficio federale dei marchi registrati, riconobbe che quella parola, pellerossa, era un epiteto razziale. L'anno dopo, però, la Corte Suprema rifiutò di pronunciarsi sulla questione, considerando la scelta di quel nome protetta dal primo emendamento della Costituzione che tutela l'assoluta libertà d'espressione.

A quel punto Snyder pensò di aver vinto definitivamente la partita: fino al ripensamento di ieri, sull'onda di una stagione di proteste innescate dall'uccisione di George Floyd da parte della polizia. Crisi di coscienza? Macché: si tratta, più banalmente, di soldi. Come abbiamo già visto in altri casi, a partire dal rifiuto di Facebook di eliminare dalla sua piattaforma certi messaggi politici violenti, organizzazioni come Black Lives Matter hanno capito che, se vuoi imporre un cambio di comportamento, il taglio dei viveri funziona più della pressione politica o mediatica: sciopero della pubblicità e fuga degli sponsor, spinti ad abbandonare i marchi resi impopolari dalle proteste che influenzano un gran numero di cittadini-consumatori.

Cosi l'orgoglioso padrone della «franchigia» dei Redskins issa improvvisamente bandiera bianca davanti alle proteste delle tribù dei nativi quando l'alleanza delle minoranze etniche riesce a spingere 87 azionisti, investitori pubblicitari e i tre sponsor FedEx, Pepsi e Nike a minacciare la fine della collaborazione (e dei finanziamenti) se la squadra non cambierà nome. E cosi il logo che da 87 anni identificava una squadra gloriosa viene frettolosamente archiviato: ora la società promette che troverà entro l'inizio del campionato un altro nome «che entusiasmerà i nostri tifosi per i prossimi 100 anni». Non c'è molto tempo: si torna a giocare tra due mesi. Una decisione precipitosa che, chiaramente, non è frutto di una maturazione, di una sopravvenuta consapevolezza etica: l'unica cosa che si è dimostrata efficace è il rischio di un crollo delle entrate. Arma efficace che, però, domani potrebbe essere usata anche in modo distorto. Quanto alla lega, la Nfl, da settimane si era convertita alla causa della protesta razziale col suo capo, Roger Goodell, che ora benedice l'«inginocchiamento» degli atleti durante l'inno. Ma lo stesso Goodell fino a ieri aveva rifiutato ogni intervento sulla questione del nome dei Redskins. E Colin Kaepernick, l'atleta che iniziò la protesta dell'inginocchiamento, da allora è disoccupato: non ha ancora trovato un nuovo team. 



(Articolo di Massimo Gaggi pubblicato su Corriere della Sera)

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