«Chissà perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi, questo ...». Il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, interrompe la lettura del suo intervento per un istante dopo aver pronunciato nel breve volgere di pochi secondi le espressioni «smart working» e «babysitting» e riflette ad alta voce sull'inutile eccesso di anglismi (ma anche pseudoanglicismi visto che "smart working" in inglese non si usa, semmai si dice "working from home" o "remote working").
Ecco il commento di Beppe Severgnini su Corriere della Sera, Sebastiano Messina su Repubblica e Mario Ajello sul Messaggero.
"Chissà perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi...", si è chiesto Mario Draghi. Be', semplice: per necessità, per convenienza, per sudditanza, per astuzia, per moda, per alzare il prezzo, per ignavia, per pigrizia, per imprudenza, per consolazione. Per necessità.
Parole come social, computer e mouse sono arrivate a cavallo di tecnologie nuove. Alla cavalleria non si resiste, a meno di scansarsi in tempo. I francesi non dicono computer ma ordinateur, gli spagnoli non usano il mouse ma il ratòn (topo). Per convenienza. In inglese, lavorare da casa si traduce working from home o remote working. Perché noi diciamo smart working, allora? Per indorare la pillola che, come sappiamo, è agrodolce. Per astuzia. Quando l'autorità non vuol farsi capire, un tempo usava il latino (Don Abbondio nei «Promessi Sposi») oggi usa l'inglese (il governo Conte 1 con i navigator). Per moda. Dire cash e non contante è un vezzo. E rende meno sgradevole l'evasione fiscale. Per alzare il prezzo. L'underwear costa più delle mutande, avete notato? Per ignavia. I vocaboli italiani talvolta sono troppo chiari: ne abbiamo paura, e ricorriamo all'inglese. Lo stalker è un persecutore. Perché non chiamarlo così? Spruzzare modernità su un reato vergognoso e antico non toglie il cattivo odore. Per pigrizia. Killer è più corto di assassino: nei titoli funziona meglio (e spaventa di meno). Per imprudenza. Perché caregiver? Perché «badante» evoca dipendenza e assistenza continua. Non piace: nè agli assistenti nè gli assistiti e alle loro famiglie. Caregiver forse s'imporrà, ma per ora è una trappola. Ci è caduto dentro, fragorosamente, il governatore del Veneto, Luca Zaia, secondo cui i caregiver sono «gli autisti delle persone disabili» (ha confuso «care» con «car», poi ha lavorato di fantasia). Per consolazione. Perché lockdown? Per esorcizzare quanto è accaduto nell'ultimo anno. «Dove trascorri il lockdown» suona meno drammatico di «Dove sarai recluso?». Buona zona rossa a tutti: passerà anche questa.
Ieri, parlando del baby sitting per chi non fa smart working, Mario Draghi si è domandato ad alta voce: «Chissà perché dobbiamo sempre usare queste parole inglesi». Era ora che qualcuno lo dicesse, perché purtroppo ormai le usiamo senza neanche rendercene conto. Perciò, ascoltandolo, ho pensato: wow, ecco un leader che nel suo speech non fa lo snob. E proprio nel meetingtra gli stand dell'hub nel parking del terminal di Fiumicino, dice ai manager, allo staffe ai millenniais che è ora di dare uno stop al mainstream. È una mission da mettere al top della short list del premier, magari dopo il Recovery Plan. Whatever it takes.
Proprio mentre si combatte una battaglia patriottica, la tutela degli italiani e dell'italiano, inteso come lingua, dovrebbero andare insieme. Se n'è accorto Mario Draghi, il quale subito dopo aver pronunciato nel suo discorso dall'hub di Fiumicino (ma invece di chiamarlo hub lo ha definito «il luogo da cui sto parlando») le espressioni «smart working» e «babysitting» si è fermato per un istante e ha guardato dritto nelle telecamere. Ed ha quindi aggiunto: «Chissà perché devo usare tutte queste parole inglesi, non lo so...».
Una critica a se stesso ma più che altro al provincialismo pigro e modaiolo dei troppi che, sia prima sia soprattutto durante la pandemia e specie a livello istituzionale e di discorso pubblico, non fanno che rinunciare all'italiano. In favore di anglismi, pseudoanglismi, formule da inglesorum o da itanglese o eurish, che farebbero pensare - ma è un errore da matita blu - che il nostro Paese non abbia una lingua di cultura capace di trattare qualsiasi contenuto scientifico e sanitario. II che non solo non è vero, ma il crederlo segnala una mancanza di autostima nazionale, una forma di subalternità che non meritiamo di infliggerci, un danno auto-prodotto che abbassa inopinatamente la credibilità dell'Italia a livello internazionale.
Non si tratta qui di esaltare la grandezza della lingua di Dante, di cui tra l'altro ricorre il settecentesimo anniversario dalla morte. Ma di ribadire - e la sferzatina di Draghi a questo vuole servire - che siamo un'eccellenza anche in campo linguistico e dobbiamo avere l'orgoglio di riconoscercelo. Non si deve dire per forza lockdown, e infatti il capo del governo - stavolta è meglio non chiamarlo premier - ha usato l'equivalente italiano: chiusure o restrizioni. E c'è un equivalente italiano, dunque non provinciale ma universale (ci si è forse dimenticati che il nostro idioma deriva dal latino che ha conquistato il mondo?), per qualsiasi fonema di quelli che, come registra criticamente anche la Treccani nel "Libro dell'anno 2020" naturalmente dedicato per lo più alla pandemia, spopolano alcune maggiormente e altre meno in questo periodo: cluster, triage, daily tampon, covid hospital, covid manager, covid free, social distancing, contact tracing, spillover, swab room (stanza dei tamponi), droplet (emissione di secrezioni respiratorie e salivari), south working (lavoro da remoto), tipping point (punto di non ritorno) e via così.
Quando Draghi ha parlato delle difficoltà psicologiche di molti di noi, che in evitabilmente potrebbero aggravarsi per effetto delle nuove misure restrittive purtroppo necessarie, avrebbe potuto dire «pandemie fatigue» e invece ha detto proprio difficoltà psicologiche. Pur essendo lui formatosi negli Stati Uniti ed essere stato per quasi dieci anni al vertice delle istituzioni europee, con sede a Francoforte. Le contaminazioni linguistiche, pur essenziali per l'evoluzione umana, sono del resto sempre state criticate da chi, ben prima di Draghi, ci vedeva lungo. Cicerone contestava l'invasione delle parole greche nel latino. George Orwell, nel saggio Politics and the English Language, inorridiva al pensiero che l'inglese potesse essere invaso da parole d'origine straniera perché ha già tutti i vocaboli che servono. E questa è esattamente la situazione dell'italiano moderno. Che certo non deve vivere di autarchia, ma neanche pensarsi inferiore.
Draghi ha cercato ieri di dire la verità, senza indorare la pillola, sui sacrifici richiesti. E lo ha fatto con una retorica di tipo classico, secca, conforme al meglio della tradizione italiana, di derivazione latina, basata su parole che indicano cose e non si astraggono, non si arrampicano, non formano arabeschi, si fanno pesare nella loro solidità e non nella loro volatilità. Praticamente, il capo del governo ha detto, come sua vecchia abitudine di quando doveva salvare l'euro, «Whatever it takes». Ma è in italiano che ha pronunciato questo suo «faremo tutto ciò che è necessario» (contro la pandemia). Con questa netta scelta culturale del «chissà perché devo usare tutte le parole inglesi». Draghi mette insomma il dito nella piaga. Fa capire che continuando così, rinunciando alla nostra lingua, rinunciamo alla nostra identità. Cioè alla nostra forza culturale e nazionale, che è indispensabile insieme a tutto il resto per uscire dal contagio e per evitare il grande fallimento. E guai a chiamarlo «epic fail».
Commenti
Ma perché usare nel finale il calco "il grande fallimento"?
Avrei chiuso con:
"per uscire dal contagio e per evitare il fallimento. E guai a chiamarlo «epic fail»."